È successo all’inizio dell’estate del 2004. Ero a Barcellona, ospite di Cristian. In quel periodo, Cristian aveva appena iniziato la sua nuova vita. Aveva affittato il piccolo appartamento al 5° e ultimo piano di un palazzo di Calle Valencia e da lì si muoveva ogni giorno per scoprire il nuovo se stesso. Un giorno della primavera appena trascorsa, in un bar, aveva conosciuto una ragazza scozzese. Era bionda e si chiamava… Bah, non mi ricordo come si chiamava, veramente nessuno l’ha mai capito. Ad ogni modo questa ragazza dagli occhi chiari lo aveva invitato a Glasgow per passare un week-end insieme e lui decise di andarci. Fu pensando al suo incontro amoroso che Cristian mi chiese se potevo creare qualcosa da regalare a … Magari un braccialetto, mi disse. Mi sentii lusingata per un tale compito e subito mi misi a cercare quello che poteva servirmi. Forse allora non ne ero così sicura, ma adesso so che io trovo camminando. Cammino, cammino, cammino tantissimo. Quando arrivo in un posto nuovo devo percorrerlo in tutte le direzioni. È il mio modo di impossessarmi di quel luogo, di farlo mio. Imparo dove sono le cose e ordino tutto nella mente come se dovessi abitarci per sempre. In effetti non abbandono mai le mie scoperte. Nei miei viaggi quotidiani, per creare, qualsiasi cosa io crei, una macedonia, un racconto, un gioiello, un quadro, una pubblicità, mi spingo in ogni direzione e ripercorro le strade che per associazione si risvegliano con i sensi. Memoria e presente si uniscono e danzano magicamente abbracciati senza soluzione di continuità. Così, anche quella volta a Barcellona, camminai. Non era la prima volta che mi trovavo in quella città. Con la Spagna e in particolare con la Costa Brava ho una lunga storia che inizia nella tarda adolescenza. Mi ricordavo di un bar polveroso che doveva essere nel Barrio Gotico e volevo ritornarci a tutti i costi. Camminando su e giù per le vecchie calle inaspettatamente mi accorsi di stare di fronte alla vetrina di un grossista di materiale per la bigiotteria. Fantastico! Sembrava di essere nella bottega di Zaele Quendolo, il negozio dove avevo passato tutto il tempo libero della mia infanzia e dove avevo tra le altre imparato a trafficare con le perle, i fiori e i difficili gusti dei clienti. Ecco di fronte a me tutto quello che potevo desiderare per creare. Entrai e comprai, ed era la prima volta che compravo quelle cose che prima, fino a che era esistito il negozio di cui raccontavo, avevo sempre avuto a mia disposizione gratuitamente. Non sapevo ancora cosa avrei fatto. Scelsi le cose che mi piacevano e che potevo permettermi, oppure mi feci scegliere, non lo so… Rientrando quella sera mi fermai nel negozio di cineserie sotto casa e acquistai anche del filo elastico colorato che avevo adocchiato la mattina. Non so dire quali strani miscugli si creino nel cervello quando nascono le cose. La chimica degli elementi è per me un fenomeno inspiegabile. Ogni volta che arrivo ad un risultato mi stupisco. Guardo quello che ho fatto è dico: “Ma, l’ho fatto io? Impossibile!”. Non solo mi sembra impossibile il fatto di averlo fatto, ma anche il tempo di creazione mi sfugge. “Quando è successo?”. Senza dubbio questi misteri insolubili sono la parte più affascinante del mio lavoro, credo sviluppino una certa dipendenza. Cristian non rientrava a pranzo e quindi, durante la giornata, io bevevo le mie tazzone di caffè e rimuginavo. Mi ricordo che una sera gli presentai il suo regalo. La prima “Gioia futurista” era nata. Il nome è nato subito, mentre mi accorgevo di lasciare quei fili lunghi che continuavano oltre il limite normalmente consentito. Quegli sbuffi di spago e di nylon mi facevano pensare a “La città che sale” di Boccioni e in generale alla velocità e al concetto di simultaneità della visione. Le “Gioie futuriste” erano vivaci. Erano colorate, ma non solo: si muovevano. Il cerchio che si chiudeva nell’opera voleva subito uscire dall’opera e comunicare la sua imperfezione, come una magia. Provando il gioiello mi accorsi che quell’idea era un mezzo per captare vibrazioni diverse e anche per solleticarsi. Era come avere le vibrisse. Gioie da gatti! Cristian era contento e lo fu anche la scozzese senza nome. Ecco, così nacquero le “Gioie futuriste”, le prime, nella forma del braccialetto. L’anno successivo non mi ricordo di averne create, ma quello successivo ancora vide la nascita di altre e nuove forme. Stimolata dal successo che avevano avuto i braccialetti, ne avevo regalati ad alcune nuove amiche note per la loro capacità di scegliere, mi rimisi al lavoro. Sono nate le collane, gli orecchini, gli anelli, le spille, i lacci porta occhiali, le bacchette magiche e alla fine i simpatici porta chiavi. Tutti sono gioielli magici. Sono cerchi creati seguendo armonie sotterranee e aeree. Ogni tipo di gioiello ha la sua particolarità e tutti sono speciali. Non è sempre possibile realizzare una “Gioia futurista”. Ci vuole l’energia giusta, se no non funziona. I nodi dei braccialetti possono stare delle ore e anche dei giorni prima di combinarsi nel modo giusto. Le perle e i pendagli arrivano un po’ da tutte le parti, ma vengono selezionati uno ad uno. Anche l’aspetto di internazionalità ha influito nella scelta del nome. Le “Gioie futuriste” hanno un carattere internazionale. Le cose e i sentimenti di cui sono fatte si prendono viaggiando, materialmente e spiritualmente nel mondo. Barcellona, New York, Brussels, Parigi, Milano, Udine, Venezia, Londra, Tokyo, Trieste, Roma, Amsterdam,… Ma chi può dire dove vaga la mente di un geografo che durante l’ora del te indossa il cappello d’artista?
“ARTE E VITA DANZANO IN UN DIALOGO CONTINUO”
Per quanto continui a chiamarle “gioie”, so benissimo che quelle che realizzo sono sculture. Sono sculture che si possono usare e indossare, sono sculture utili. L’arte è applicata alla vita ed è un po’ questo il senso di tutta la mia ricerca. Unire le cose che normalmente vengono tenute distanti, formare dei cerchi, aprire dei canali di comunicazione… Ricostruire, o meglio costruire un’immagine della mia persona che si integri a quella del mondo è il mio compito di artista. Anche se sono solo un punto infinitesimale del cosmo, come tale, trasmetto un segnale che influenza tutto il resto. Il mio messaggio è: unione, armonia, gioia e anche tanto solletico. Le “gioie futuriste” sono piccole opere scultoree che raccontano la magia dell’unione degli elementi. Forme, colori, nomi, odori… Tutto si è mescolato nel tempo del viaggio e, ad un certo punto ha trovato la sua conclusione in un’unione. È questa la forma di scultura che come esule mi posso permettere, e non è poco. Le “gioie” sono leggere e viaggiano con me. Ovunque posso trovare un angolino di serenità per infilare le perline e per stringere i nodi che le tengono insieme. Sono quelli che io chiamo i nodi dell’alleanza.
L'IMPERO DEI NOMI
Racconto sempre con piacere questa storia che mi riporta sul terrazzino di zia Letizia, per gli amici "Letti e materassi"! Zia Letizia abitava con zio Nino in un grazioso appartamentino sito al 4° piano di una palazzina popolare. Gli scuri in legno erano color rosso scuro e i lampadari di cristallo. Nino e Letizia erano due personcine misurate e veramente a modo. Avevano poche cose e le tenevano in uno stato impeccabile. Nino copriva sempre con un telo l'Autobianchi color bordeaux (come gli scuri) parcheggiata in cortile e riponeva con cura i tre volumi della sua modesta, ma utilizzata enciclopedia etimologica. Letizia conservava la gamba sana di un collant rotto e aspettava la compagna. Poi cuciva insieme le due gambe sane e otteneva così un nuovo paio di calze. Letizia era stata una sarta professionista e quindi per lei si trattava di un gioco, però che ingegno! Nella dispensa del mobile del salotto degli zii c'erano lo sciroppo di granatina e quello di tamarindo. La zia me ne offriva sempre un bicchiere quando io e la mamma andavamo a trovarla e dentro il bicchiere metteva una bacchettina colorata per mescolare la bibita. Oltre alla granatina Letizia offriva anche un ottimo te. Non era tanto la qualità delle foglie del te ad essere preziosa, ma quella delle tazze che erano di finissima porcellana e davano alla bevanda un gusto delicato. Alle volte giocavo con zio Nino e mi divertivo perchè lui con me era serio. Non mi trattava come una bambina! Giocavamo a dama e ogni tanto riusciva anche a battermi. La casa degli zii comprendeva anche un piccolo fazzoletto di terra che si trovava nel cortile sul retro. Zia Letizia ci cresceva un delizioso orticello. Un giorno io e Letizia abbiamo giocato alle signore. Lei era la signora di fronte e stava nel cucinino a preparare da mangiare. Io ero la vicina del terrazzino e raccontavo tutti i miei impegnativi impegni. Naturalmente i tendoni verdi che Letizia aveva confezionato per riparare il balcone dal sole e dagli sguardi indescreti erano belli stesi e creavano un'atmosfera un po' magica. Il terrazzino e la cucinetta adiacente viaggiavano chissà dove mentre, tra un biecchiere di acqua con l'idrolitina e i miei infiniti discorsi le ore cadevano nel pozzo di san Patrizio. Quel giorno Letizia non aveva potuto esimersi dallo spiare a mia madre le mie fantasie: era troppo stupita! Le avevo spiegato per filo e per segno che cosa facevano i miei 100 figli e li avevo anche chiamati tutti per nome. Me lo ricordo bene che dicevo tutto dei successi scolastici di Anna, delle bricconate di Paul, dei dentini di Shila, dei capelli ricci di Margot, di Erika, della passione per le automobili di Ginger, di Bob e dei suoi compagni di calcio, di Edoardo e bla, bla, bla. Per mia zia quei figli erano troppi per una bambina come me, ma io sapevo tenerli tutti a bada.